La tutela dei figli nati da PMA al di fuori dei casi consentiti deve essere ricavata da una interpretazione costituzionalmente orientata della legge 40/2004. Invero tale normativa va interpretata nel senso che i nati a seguito dell’applicazione delle tecniche della procreazione medicale assistita hanno lo status di figli della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere a tali tecniche, a prescindere dal rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi di accesso alla PMA. Quindi tale disposizione normativa tutela il nato anche nell’ipotesi di minore nato in Italia da fecondazione eterologa praticata all’estero da una coppia omosessuale femminile.
Questo è quanto stabilito dalla Corte di Appello di Cagliari con il decreto del 16.04.2021.
La vicenda
Una donna provvedeva a riconoscere quale proprio figlio naturale un bambino partorito a seguito di PMA dalla propria compagna. L’ufficiale dello stato civile di un comune sardo comunicava alla Prefettura competente di aver ricevuto la dichiarazione di riconoscimento con annotazione sull’atto di nascita.
Giudizio di primo grado
Per la disapplicazione dell’annotazione agivano avanti al Tribunale di Cagliari la Prefettura e il Ministero dell’Interno deducendo che l’art. 30 del d.p.r. 396/2000 prevede che gli atti di nascita si formano e si iscrivono nei registri indicando quali genitori la madre partoriente e il padre biologico. Una volta formati richiedono sempre la preventiva verifica in capo al soggetto che effettua il riconoscimento della condizione di paternità o maternità, pertanto l’annotazione di cui si va discorrendo era avvenuta in violazioni di detta disposizione in quanto i genitori non possono essere dello stesso sesso. La medesima domanda veniva avanzata dal PM in sede.
Entrambe le genitrici si costituivano in giudizio chiedendo che fosse dichiarata l’inammissibilità del ricorso e comunque nel merito il rigetto.
Le due donne esponevano di aver da anni una relazione stabile e di aver optato, in territorio tedesco, per la procreazione medicale assistita di tipo eterologo, manifestando, in qualità di coppia la comune volontà di assumere congiuntamente la responsabilità genitoriale del nascituro.
Nato il bambino, la donna non partoriente aveva riconosciuto come proprio figlio il minore specificando nella dichiarazione raccolta dall’Ufficiale dello Stato Civile che lo stesso era nato a seguito di tecniche di procreazione medicale assistita a cui si era sottoposta la compagna partoriente.
Si costituiva in giudizio, altresì il Comune, che si rimetteva alla decisione del Tribunale, precisando che l’annotazione rispondeva ai principi elaborati dalla giurisprudenza di merito, di legittimità e della Cedu in materia.
Il tribunale di Cagliari respingeva il ricorso.
Avverso il decreto, la Prefettura e il Ministero dell’Interno proponevano reclamo dinanzi alla Corte di Appello.
Giudizio di Appello
La Corte di Appello con una motivazione complessa ha rigettato il reclamo.
Innanzitutto il collegio ha escluso che la Prefettura e il Ministero avrebbero dovuto proporre un’azione di stato stante l’assenza del legame biologico/genetico tra il dichiarante e il nato, anziché l’azione di rettificazione dell’atto di nascits promossa ai sensi dell’art. 95 del DPR 396/2000.
Ma ciò che più importa in questa sede, la Corte ha ribadito la correttezza del Tribunale di prime cure, che ha ritenuto applicabile al caso de quo il complesso di norme della legge n. 40/2004 dettate a tutela dei figli nati da PMA . Secondo il Tribunale, infatti, la normativa in questione disciplina l’instaurazione del rapporto di filiazione con entrambi i genitori di intenzione, anche nell’ipotesi di minore nato in Italia da fecondazione assistita praticata all’estero da una coppia omosessuale femminile.
Motivazione del giudice di primo grado
Il giudice di primo grado, invero, ha riconosciuto prevalente la tutela dell’interessi dell’incolpevole nato alla conservazione di uno status già acquisito a seguito della nascita e del consenso prestato da coloro che hanno fatto ricorso alla PMA, scindendo tale profilo dalla valutazione di illiceità o liceità della tecnia di PMA concretamente utilizzata. Tant’è che la formulazione letterale e onnicomprensiva dell’art. 8 della L. 40/2004, ai sensi del quale i nati a seguito di applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere a tali tecniche, non fa alcun riferimento al necessario rispetto dei requisiti soggettivi e o oggettivi di accesso alla PMA.
I punti essenziali
Il tribunale è giunto alla conclusione per la quale la tutela dei figli nati da PMA trova il suo alveo nella L. 40/2004 attraverso un percorso motivazionale molto complesso i cui snodi essenziali posso essere così sintetizzati:
– l’ordinamento non prevede un unico modello di genitorialità fondato esclusivamente sul legame biologico tra genitori ed il nato, riconoscendo diversi tipi di genitorialità, vale a dire quella da procreazione naturale, quella da adozione legittimante e quella da PMA ex l. n. 40/2004;
– la filiazione giuridica non coincide con la discendenza o l’appartenenza genetica;
– la disciplina della pratica delle nascite a seguito di fecondazione assistita è un sistema diverso e autonomo rispetto al modello previsto dal codice civile, che prevede il rilievo del consenso validamente prestato in un progetto di genitorialità condivisa come momento centrale, distintivo e caratterizzante il riconoscimento dello status di figlio del nato e che vuole, comunque, garantire l’esistenza del rapporto di filiazione, anche nell’ipotesi di ricorso ad una tecnica vietata, con la sola eccezione della maternità surrogata (art. 8 e 9 L. 40/2004).
– l’art. 8 non attribuisce alcun rilevo alla condizione giuridica della coppia (equiparando i coniugati i conviventi: art. 5 L. 40/2004) ma, enunciando una nozione priva di qualsivoglia indicazione in ordin, e al genere, permette di considerare ricomprese nella medesima anche le coppie dello steso sesso;
– queste conclusioni non si pongono in contrasto con l’ordine pubblico, come evidenziato dalla Corte di Cassazione con una sentenza del 2016 e una del 2017, che hanno riconosciuto la trascrivibilità nei registri dello stato civile nazionale del valido atto di nascita del minore nato da due donne, nell’ambito di un progetto di genitorialità di coppia;
– l’art. 12 L. n. 40/2004 prevede la sanzione amministrativa pecuniaria soltanto a carico degli operatori sanitari che hanno provveduto alla PMA da parte di coppie di individui dello stesso sesso ma non prevede alcuna deroga all’applicazione dell’artt. 8 e 9 l. cit. che esclude l’azione di disconoscimento da parte del padre o la richiesta di anonimato da parte della madre;
– diversamente opinando, si perverrebbe al risultato paradossale di applicare un trattamento differenziato al minore, nato nell’ambito di una coppia di donne che ha fatto ricorso alla PMA, a seconda che l’evento si sia verificato nel territorio italiano oppure estero e sia stata successivamente chiesta la trascrizione.
Tutela dei figli nati da PMA al di fuori dei casi consentiti
Tale interpretazione è stata condivisa dalla Corte di Appello, che pur tenendo presente il costante richiamo della giurisprudenza alla necessità di un intervento del legislatore, ha richiamato la necessità di offrire una interpretazione costituzionalmente orientata, in modo da offrire una tutela dei figli nati da PMA, nessuno escluso, senza porre distinzioni fondato sul genere dei genitori. Quindi in definitiva la Corte ha ribadito come debba sempre emergere un’adeguata considerazione della tutela dell’interesse del nato alla conservazione di uno status acquisito, in quanto la tutela dell’interesse del minore deve sempre prevalere con l’unico limite della violazione del divieto di maternità surrogata.
Pertanto la tutela dei figli nati da PMA trova il suo fondamento, sempre e comunque, nella l. 40/2004.