Diritto di bitazione su bene in comunione con terzi - interpretazione sistematica dell'art. 540 c.c.

Diritto di abitazione su bene in comunione con terzi

Il diritto di abitazione su bene in comunione con terzi non sorge in favore del coniuge superstite ex art. 540 c.c.

Il diritto di abitazione della residenza familiare, previsto dall’art. 540 c.c. in favore del coniuge superstite, non è configurabile ogni volta che l’immobile sia in comunione con terzi. Infatti la norma prevede che esso sia configurabile solo quando l’abitazione familiare sia di proprietà esclusiva del de cuius ovvero in comunione tra questi ed il suo coniuge superstite. Infatti nel caso di comunione della casa con un terzo non è realizzabile l’intento del nostro legislatore di assicurare, in concreto, al coniuge sopravvissuto il godimento pieno del bene oggetto del diritto.

In tal caso a quest’ultimo non spetta neppure l’equivalente in denaro del citato diritto, nei limiti della quota di proprietà del defunto, perché, in tal modo, verrebbe attribuito un valore economico di rincalzo del diritto di abitazione, che, invece, ha un senso solo laddove determini un incremento qualitativo alla quota del coniuge superstite, garantendo allo stesso il godimento della dimora familiare.

Questo è il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez II, con l’ordinanza n. 29162/2021 del 23.03.2021.

La vicenda

La vicenda riguarda una successione legittima in cui il de cuius ha lasciato come eredi la moglie e due figli, che avevano abitato una casa in comproprietà con terzi, presumibilmente fratelli del defunto.

Uno dei comproprietari agiva in giudizio per lo scioglimento della comunione ereditaria, nell’ambito del medesimo giudizio la moglie del de cuius chiedeva che fosse accertato il proprio diritto di abitazione ex art. 540 c.c. sulla quota, spettante al marito defunto, di 1/3 della proprietà della casa coniugale ovvero in subordine il diritto di vedersi liquidare l’equivalente monetario della quota stessa.

Tanto il giudice di prime cure che quello di appello rigettavano la richiesta della donna.

L’impossibilità di configurare un diritto di abitazione su bene in comunione con terzi

Proposto ricorso per cassazione, quest’ultima ribadiva l’impossibilità di configurare un diritto di abitazione su bene in comunione con terzi.

Segnatamente la Suprema Corte ha confermato che la locuzione “di proprietà del defunto o comuni” di cui all’art. 540, comma 2, c.c., deve essere intesa alla luce della ratio del diritto di abitazione e della sua stretta connessione con l’esigenza di godere dell’abitazione familiare.

Pertanto, secondo gli ermellini, il legislatore in tale disposizione si è riferito solamente alla comunione con l’altro coniuge, tenuto conto che il regime della comunione è quello legale e quindi presumibilmente il più frequente nella casistica generale. D’altro canto, ove il comproprietario sia un terzo non potrebbero sussistere le condizioni per la nascita del diritto di abitazione ex art. 540 c.c., non potendo essere realizzata in tal caso la volontà del legislatore di assicurare al coniuge superstite il pieno godimento dell’immobile.

Il diritto di abitazione ex art. 540 c.c. deve soddisfare esigenze abitative del coniuge superstite

In altre parole il diritto di abitazione può sorgere solo laddove vi è la possibilità di soddisfare l’esigenza abitativa del coniuge superstite, esigenza questae che non può essere soddisfatta ogni volta in cui l’immobile è in comproprietà con terzi.

Così il Collegio, visto che non sussistente il diritto di abitazione su bene in comunione con terzi, ha ritenuto altresì non configurabile a favore del coniuge superstite, anche nei limiti della quota di proprietà del de cuius, il diritto ad avere l’equivalente monetario del suddetto diritto (non sorto), in quanto si finirebbe per attribuire “un contenuto economico di rincalzo al diritto di abitazione che, invece, ha senso solo se apporta un accrescimento qualitativo alla successione del coniuge superstite, garantendo in concreto l’esigenza di godere dell’abitazione familiare”.

Inoltre la Corte di Vertice ha ritenuto corretta la decisione della Corte di Appello che ha condannato la donna al pagamento di un equo compenso per l’esclusivo uso della cosa comune.

Riconoscimento di un equo indennizzo per l’uso esclusivo del bene

Invero, escluso il diritto di abitazione su bene in comunione con terzi, la Corte ha ritenuto come l’utilizzazione in via esclusiva di un bene comune da parte del singolo comproprietario, in assenza del consenso degli altri comunisti ai quali resta precluso l’uso, determina un danno.

In verità la Corte non potendo entrare nel merito della vicenda la cui interpretazione della Corte territoriale, si è limitata a prendere atto che il giudice di appello aveva confermato la decisione di primo grado che aveva condannato la donna al pagamento di una equa indennità a far data dal 2007, quando era intervenuta la richiesta, dei comproprietari, di un indennizzo per l’uso esclusivo dell’immobile, senza che avesse rilievo la mancata precedente formulazione di richieste o intimazioni di pagamento.

Diversa possibilità interpretativa del diritto alla configurabilità del diritto all’equo indennizzo

Ad onor del vero se, da un lato, l’interpretazione relativa all’esclusione del diritto di abitazione su bene in comunione con terzi appare aderente alla ratio dell’istitutto, dall’altro non sembra condivisibile quest’ultima statuizione che cozza recisamente con l’altro più recente indirizzo giurisprudenziale, sia di legittimità che di merito, secondo cui per configurare un diritto al risarcimento del danno in favore del comproprietario, occorre che questi abbia richiesto la possibilità di poter parimenti godere direttamente della bene comune e questo gli sia impedito, non essendo sufficiente per far sorgere un siffatto diritto al risarcimento del danno la semplice richiesta di un indennizzo.